giovedì 15 aprile 2010

Vittorio Gregotti, l'anti archistar


di Daniela Paola Aglione


L'architettura è una professione delicata, perché modifica l'ambiente costruito, perché modifica le relazioni col territorio, il paesaggio, la vocazione di un territorio ed è votata alla posterità. Come in molte altre professioni, è insita una componente di responsabilità che dovrebbe sconfinare - senza deludere naturalmente - le sole aspettative della committenza.

Ricordo una bellissima chiacchierata al telefono con l'architetto romano Fabio Briguglio, autore con Patrizia Ferri (curatrice d'arte) del libro Translating rooms Nuove ecologie dell'abitare edito da Gangemi. Gli chiesi se la bellezza, può salvare il mondo...
Diciamo che può concorrere a farlo. Non vorrei essere troppo ottimista, ma direi che è un buono strumento. Purtroppo la bellezza - trascurando i canoni classici - è un punto di vista, se lo applichiamo all'architettura mi vengono i brividi per il numero di variabili che entrano in gioco in un momento storico in cui la dominanza della bellezza o delle bellezze è frutto di sollecitazioni polisensoriali tra cui ci si perde. Quindi faccio un passo indietro, arrendendomi subito all'aleatorietà della materia e m'incuriosisco di due "ferite aperte" dell'architettura di un passato recente, ma direi ancora abitate:

DPA - Le vele di Scampia, dell'architetto Franz di Salvo, costruite tra il 62 e il 75... volevano essere allora il paradigma di un nuovo modo di interpretare la residenza sociale. Cosa pensa del divario tra le intenzioni dell'architetto e la condizione odierna?

FB- Prima cosa: l'architetto ha sempre un committente e interpreta delle esigenze che gli vengono date e comunicate e a cui deve rispondere in termini progettuali. Il fallimento di molte "sperimentazioni" degli anni '70 e oltre, di queste città nella città, di questi edifici in cui venivano raccolti tantissimi abitanti, è soprattutto la mancanza di seguito che la politica ha dato alla costruzione di questi edifici. Questi edifici sono stati voluti, ma poi abbandonati prima di essere finiti. Non si è dato modo di completare un programma più che un progetto, perché questi edifici fanno parte di un programma: non sono state completate le infrastrutture, i collegamenti, sono stati abbandonati a se stessi, non sono stati dati i servizi essenziali, quindi da lì il degrado.... Non è stato il fallimento degli architetti, ma siamo noi ad aver fallito come società. Abbiamo fatto degli investimenti senza dare loro respiro.

DPA - Altro caso eclatante, medesimo periodo: il Quartiere ZEN (Zona Espansione Nord) a Palermo di Gregotti. Cosa trova di "espansione" e cosa di "zen" nelle intenzioni dell'architetto e nella realtà dei fatti?

FB - Dovrei anche in questo caso ripetere la risposta precedente... Difficile dare un giudizio in termini perentori rispetto alla riuscita dell'intervento. Sicuramente il progetto è stato portato a compimento secondo dei canoni di grande rigore che appartengono a Gregotti, forse in questo possiamo richiamare lo "zen" dell'essenzialità intesa come rigore, ma non saprei darle una valutazione in altri termini.
L'integrazione di una architettura nel contesto è fondamentale. Io ho lo studio a 100 metri dal MAXXI, il nuovo museo del XXI secolo di Zaha Hadid che ha avuto una inaugurazione di recente, ma in realtà ci sono ancora i lavori in corso. Questo in qualche modo riprende la critica di Gregotti sulle archistar. E' vero che in questo momento l'architettura tende a esprimersi in maniera eccessiva, nel senso che si esprime in maniera autoreferenziale, solipsistica, non comunica con il contesto, ma cerca l'autoaffermazione. In qualche caso cerca di potenziare il livello di comunicazione rispetto alla funzione che svolge: un museo che abbia una particolarità a livello formale, richiama molta più gente. Quello che io penso è vicino all'idea di Gregotti, l'architettura deve trovare una misura e relazionarsi col contesto. Nessun gesto perentorio, ma il tentativo di cercare una relazione pertinente con le qualità morfologiche e la storia di un contesto. E' una dimensione che abbiamo perso, la peggiore deriva sono le andate di chi i fa il verso alle archistar senza avere gli strumenti ed il controllo che hanno le archistar, oltretutto.

Ecco, appunto. E Vittorio Gregotti non si ritiene un'archistar proprio per il rispetto che dice di mostrare nei confronti del contesto.
Qual è allora il giusto modo di rapportarsi al contesto urbano?

La risposta a questa e ad altre domande su
Gregotti «Le opere architettonichedelle archistar, oggetti di marketing»

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